Huntington, la malattia rara che interrompe i sogni citata nella serie Sky “Diavoli”

Insorge intorno ai 40 anni provocando demenza e perdita dell’autonomia. Il Centro
Parkinson dell’ASST Gaetano Pini-CTO ha un ambulatorio dedicato. La malattia è
stata citata nella serie in onda su Sky “Diavoli”: ne è affetto uno dei personaggi
presenti nel primo episodio

Una malattia che interrompe i sogni. La dott.ssa Paola Soliveri,
neurologa del Centro Parkinson dell’ASST Gaetano Pini-CTO, definisce così la malattia di
Huntington, una patologia rara, degenerativa del sistema nervoso centrale che esordisce intorno
ai 40 anni, proprio quando le persone dovrebbero tagliere i traguardi più importanti della loro vita.
“Invece – come spiega la dott.ssa Soliveri che tiene un ambulatorio convenzionato con il Servizio
Sanitario Nazionale al Centro Parkinson – l’Huntington è devastante perché incide sia sulla sfera
motoria sia su quella psichica ed è associata a un frequenza di suicidi più elevata che nella
popolazione generale”.
La malattia di Huntington è una malattia rara, la cui prevalenza in Europa è stata calcolata, a
seconda degli studi, tra 5.7 e 10 per centomila persone. È una malattia familiare trasmessa con
modalità autosomica dominate, vuol dire che ciascun figlio o figlia di una persona affetta ha un
rischio del 50% di ereditarla. I segni della malattia compaiono in età adulta, ma meno
frequentemente possono manifestarsi anche in età infantile o senile.
“La malattia di Huntington è caratterizzata dalla triade sintomatologica: disturbi motori,
decadimento cognitivo e alterazioni psico-comportamentali. Le alterazioni motorie sono
rappresentate da movimenti involontari di tipo coreico dai quali la malattia prende il nome, perdita
d’equilibrio e anche rallentamento motorio. Questi disturbi peggiorano progressivamente fino alla
perdita dell’autonomia. I sintomi psico-comportamentali possono anche precedere i segni motori e
si manifestano con irritabilità, ansia, depressione, apatia, disturbi ossessivo-compulsivi e a volte
con disturbi psicotici. Sono presenti inoltre deficit cognitivi, che possono evolvere fino alla
demenza”, spiega la dott.ssa Soliveri.
La diagnosi clinica prevede la presenza di segni motori inequivocabili e compatibili con la
malattia in un paziente con familiarità nota per malattia di Huntington. Dal 1993 è anche possibile
avere una conferma genetica della diagnosi eseguendo il test genetico diretto che mostra
un’espansione uguale o superiore a 36 del frammento nucleotidico CAG sul gene dell’huntingtina
sul cromosoma 4. Una persona a rischio per la malattia e maggiorenne può anche eseguire il test
genetico predittivo per sapere o meno se ammalerà in futuro: “In considerazione tuttavia della
problematicità di questa informazione in una persona non ancora sintomatica, le linee guida
internazionali suggeriscono che venga pianificato dai sanitari un congruo periodo di preparazione
al test con dei colloqui psicologici”, sottolinea la specialista.

L’accettazione della diagnosi è, infatti, la fase più delicata, anche perché allo stato attuale da
questa patologia non si guarisce e i medici possono prescrivere solo terapie sintomatiche, che
riducono alcuni sintomi senza poter incidere sull’inesorabile progressione della malattia. È in corso
però una sperimentazione internazionale con una molecola sulla quale sono riposte grandi
speranze: “La molecola in sperimentazione – afferma la dott.ssa Soliveri – sembra in grado di
ridurre la produzione dell’huntingtina, la proteina patologica prodotta dal gene mutato, che è
dannosa per le cellule nervose. Questa molecola è un nucleotide antisenso (ASO) che si lega all’RNA
messaggero che veicola l’informazione dal gene mutato, ne blocca la traduzione e ne stimola la
degradazione in modo che la proteina huntingtina non venga prodotta. C’è tuttavia una difficoltà,
e cioè che queste molecole devono essere veicolate nel sistema nervoso centrale attraverso delle
rachicentesi, cioè punture lombar”i.
La progressione della malattia è lenta e ha caratteristiche differenti in ogni paziente. L’approccio
alla patologia deve essere multidisciplinare e la figura sanitaria di riferimento che si occupa della
presa in carico del paziente è il neurologo: “Il neurologo, oltre a prescrivere la terapia per ridurre i
sintomi motori e psico-comportamentali, ha il compito di supportare il paziente e indirizzarlo
verso gli specialisti di cui ha bisogno come lo psichiatra, il fisiatra per la prescrizione della
fisioterapia per l’equilibrio e la coordinazione motoria, il nutrizionista, il logopedista. Un problema
importante in questa malattia, specie nelle fasi più avanzate, è la disfagia, cioè la difficoltà a
deglutire che può comportare oltre alla perdita di peso per un inadeguato apporto nutrizionale,
anche la possibilità di polmoniti da aspirazioni difficilmente trattabili anche con terapie
antibiotiche e l’ostruzione acuta delle vie aeree con possibilità di soffocamento. Perciò quando è
presente la disfagia è consigliabile adottare una dieta morbida, omogenea ed ipercalorica per
ovviare alla possibile perdita di peso ed utilizzare addensanti per i liquidi. Nei casi più gravi tuttavia
si rende necessaria l’applicazione di una PEG (Gastrostomia Endoscopica Percutanea) per la
nutrizione”.
Oltre a queste indicazioni, il neurologo ha il compito di informare le giovani coppie sulla
possibilità molto alta di trasmettere la malattia ai figli: “È opportuna una consulenza genetica da
parte di un genetista clinico per chiarire quali siano le opzioni disponibili per la procreazioni. Si può
fare una diagnosi prenatale sui villi coriali oppure una diagnosi reimpianto nell’ambito di una
fecondazione assistita”. Estremamente importante, infine, è anche il supporto al caregiver che si
trova a confrontarsi con una persona che lentamente perde la propria identità, oltre che
autonomia: “Purtroppo in Italia si fa ancora molto poco sul fronte dell’assistenza domiciliare che
dovrebbe essere specifica per chi ha l’Huntington. Molte famiglie sono costrette a rivolgersi alle
case di riposo per anziani, ma il paziente che viene ricoverato in queste strutture spesso ha poco
più di 40 anni, per questo l’ambiente non è adatto ad accoglierlo”, conclude la dott.ssa Soliveri.

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