La brutta avventura di Jurij Cynara (21 minuti di lettura)

di Emi Tempesta

Diamo per scontato che giudicherete quello che sto per raccontarvi un racconto di pura fantasia; ma che ci posso fare? è invece pura verità. Se vorrete fidarvi, bene, altrimenti pazienza. Del resto quello che accadde è ampiamente documentato – quindi non smentibile – da fotografie, filmati, testimonianze. Non garantisco al cento percento la fedeltà dei dialoghi, ma se c’è qualche piccola imprecisione ne sarà comunque rispettato il senso.
Iniziamo dai protagonisti. Vi dico subito che chi scrive è uno di loro. E questo è un particolare importante, perché vi racconterò i fatti per filo e per segno per come si sono svolti. Vi dico anche di non tentare di indovinare la mia identità. Sbagliereste.
Il perché non possa rivelarvi la mia identità è presto detto: non mi va. Il mio futuro ne sarebbe travolto. E a me le cose stanno bene se rimangono come stanno. Lo so che una fonte anonima giustamente non può essere considerata credibile, ma anche in questo caso non so davvero che farci.
Andiamo avanti. I fatti si sono svolti in una famiglia così composta: papà, mamma, un bambino di nove anni, Mattia, più nonno Gioacchino, che vive a venti metri di distanza, ma che a pranzo e cena è ospite fisso, un cane e una cocorita. Non necessariamente in ordine di importanza. Trattasi di famiglia benestante, con villetta a schiera, giardino, lavoro, tv a schermo ultrapiatto, solido conto in banca, cassetti pieni, frigo pure e così via.
Della cocorita non posso parlarvi. Non gradisce gli estranei, da cui preferisce… estraniarsi, e non ha acconsentito alla liberatoria per includerla come protagonista della vicenda. Non posso neppure rivelarvi il nome. Solo la razza: parrocchetto ondulato; nome scientifico Melopsittacus undulatus. E vi ho detto fin troppo. Il cane invece si chiama Mika. Non invece nel senso che si chiama in un modo diverso dalla cocorita, ma nel senso che invece il nome possiamo scriverlo: e infatti l’abbiamo appena fatto. Di Mika avremo ampiamente modo di parlare.


Al tempo della prima giornata della narrazione Mattia aveva esattamente nove anni, visto che era il suo compleanno: 24 ore che non dimenticherà mai, perché – che mi venga una colibacillosi se racconto storie – l’avventura che gli si prospettava a qualunque altro suo coetaneo sarebbe apparsa strabiliante.

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Mattia sarebbe stato un bambino più che sereno se non avesse avuto – a suo dire – un grande cruccio: da mamma e papà, mai una sberla, mai uno sculaccione. Le punizioni per le marachelle piombavano su di lui, ma sotto forma – a suo giudizio – di crudelissimi maltrattamenti psicologici, al limite del sadismo. Chessò, una settimana senza game-boy, tre giorni senza tv, due ore senza carte dei Pokémon. In occasione di una birichinata un po’ più robusta (aveva rovesciato una coca-cola su un Kilim pakistano) la mamma era arrivata a minacciare addirittura sei mesi senza gelato crema e gianduja, il suo preferito. Pena poi ridotta a tre mesi, per buona condotta. Ecco perché Mattia, subendo queste inaudite atrocità, trovava insopportabili i personaggi alla David Copperfield che non volevano rendersi conto della loro fortuna: un paio di bacchettate ogni tanto dal buon maestro Creakle e passava la paura.
Più volte Mattia aveva proposto ai genitori di commutare il castigo in una pena corporale. Niente da fare. Quei due avevano (e hanno tutt’ora) la testa più dura del muro e di dar botte non ne volevano neppure sentir parlare. Lui aveva tentato in tutti i modi di farli ragionare. Inizialmente era arrivato a minacciare di chiamare il telefono azzurro ma poi aveva rinunciato perché sicuro che sarebbero stati arrestati entrambi e sbattuti in cella a pane e acqua. E non voleva che si arrivasse a tanto. Ma vi rendete conto – aveva chiesto loro un giorno provocando in entrambi una risata incontenibile – che un modo squilibrato di essere genitori può compromettere lo sviluppo affettivo dei figli? Una frase sentita in una trasmissione tv che aveva memorizzato per spararla alla prima buona occasione.
Per vivere meno peggio la sua triste condizione Mattia aveva anche tentato di farsene una ragione inquadrandola alle luce di una presunta infanzia infelice vissuta da uno o da entrambi i suoi genitori. Indagando discretamente, con domande tipo: Papà i nonni non ti picchiavano mai da bambino? La risposta era stata: Quasi mai, ma poteva capitare, allora si pensava che una sculacciata ogni tanto fosse inevitabile per educare un bambinoEcco, si diceva Mattia, lui se la cavava con una sculacciata e non ha la minima idea di che cosa si prova a essere privati di un gioco o di un dolce. È una questione di ignoranza. Oppure: Mamma tu avevi qualcosa da mangiare che ti piaceva da morire? , aveva riposto la mamma, la zuppa ingleseMa allora i dolci si mangiavano solo alla domenicaEcco, si diceva Mattia, è stata sicuramente punita anche lei in modo crudele: il dolce una volta alla settimana, e se eri in punizione potevi stare 15 giorni senza. Così ora inconsciamente si vendica su di me. Ma perché rifarsi su un povero innocente?

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Forse, aveva pensato Mattia, avrebbe potuto dargli una mano la Storia. Doveva pur esserci stata una condizione analoga alla sua, vissuta da un essere umano prima di lui. E allora, chissà, che da un predecessore illustre non potesse arrivargli il suggerimento su come liberarsi dal maledetto giogo. Ma anche in questo caso il risultato era stato deludente. Spulciando nei libri, Mattia, alla ricerca di qualche punizione storica, si era imbattuto soltanto nella faccenda di Damocle e della spada appesa a un crine di cavallo. Tutto l’episodio è piuttosto pasticciato e non si capisce bene che cosa avesse combinato sto Damocle per meritarsi una spada appesa sulla testa. Ci sta di mezzo una cena: come minimo doveva aver fatto una puzza a tavola. O forse aveva rovesciato la minestra, anche lui su un tappeto pregiato. Ma comunque era un cosa finita in fretta perché Dionigi, il padrone di casa, che quella sera forse era un po’ sbronzo, aveva poi tolto la spada e la punizione era finita lì.
Mentre sulla testa di Mattia le punizioni rischiavano di rimanere appese per tutta la vita da bambino. Così alle maestre, ai vicini di casa, a tutte le persone adulte con cui avesse un po’ di confidenza, diceva sempre: Mi martirizzano e nessuno mi crede. La cosa all’inizio sembrava interessarli, ma poi quando spiegava in che cosa esattamente consistesse il martirio, tutti la mettevano sul ridere. Vigliacchi! Meninpippisti! Diceva Mattia. Alla fine aveva anche deciso di lanciare il suo s.o.s. al telefono azzurro, in fondo – aveva pensato – non dovrebbero rimanere in gattabuia per più di una settimana e io potrei stare col nonno, ma anche questo strumento estremo non aveva dato risultati. Quell’infame del centralinista, dopo aver smesso di ridere, era arrivato a sostenere che i suoi genitori avevano ragione a comportarsi così, che i bambini non si picchiano e che lui avrebbe potuto chiamarli se avessero cambiato sistema passando alle maniere forti. Più forti di così! Aveva commentato Mattia. Bell’aiuto! Ma questi adulti quando parla un bambino sanno soltanto ridere?
Comunque i genitori, a parte questa forma di sadismo, sono due brave persone e lui, tutto sommato, vuole loro un gran bene: Un sentimento ricambiato, pensa, nonostante tutto. A parte le idee crudeli sulle punizioni, come genitori sono accettabili: intanto hanno acconsentito immediatamente al suo desiderio di avere un cane e una cocorita. Del resto gli animali, intendo quelli non umani, in una famiglia – per essere un gruppo completo ed equilibrato – sono assolutamente indispensabili.

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E poi non lesinano il gioco, le coccole, le favole lette prima della nanna e i regali alle scadenze comandate. Il meglio è il papà quando fa finta di perdere al braccio di ferro, anche se quando l’ha capito Mattia ci è rimasto un po’ male. Del resto era assurdo pensare che potesse perdere davvero. È grande e grosso, o almeno così sembra a lui che è piccolo come si deve essere piccoli alla sua età. Anche la mamma è grande e grossa, ma meno del papà, un po’ giunonica e un po’ brevilinea, e deve avere una forma strana perché trova scomode delle sedie che lui invece trova comodissime. Tutti e due hanno i capelli ancora neri, nonostante l’età avanzatissima. Il papà infatti, al tempo degli avvenimenti che sto raccontando, aveva già 42 anni. L’età della mamma invece è un vero segreto di Stato. A domanda precisa risponde vagamente, o con spiritosate che non farebbero arricciare un baffo a un topo.
Deve oscillare, l’età della mamma, mi dicono, tra i 30 e i 40 anni. Per certo è più giovane del papà. Perché, come tutti sanno, tra gli umani adulti i maschi e le femmine possono fidanzarsi e poi sposarsi o comunque dormire assieme soltanto se il maschio ha un tot di anni più della femmina. E questo per una semplice ragione: perché quando diventano vecchi il maschio deve morire prima.
Comunque Mattia si è fatto un punto di onore di scoprire prima o poi l’età della mamma, non foss’altro che per dimostrare che i bambini possono benissimo conosce i segreti di famiglia senza per questo andare subito a spifferarlo ai quattro venti. Ci era andato vicino a scoprire l’età della mamma quando in sua presenza aveva dovuto dire a un tizio a uno sportello dell’Anagrafe, di essere nata nel 54. E lui una volta a casa era andato di corsa a prendere carta e matita per fare il conto. Dunque siamo nel 1999. Bisogna fare 1999 meno 54. Allora 9 meno 4 fa 5, 9 meno 5 fa 4, 9 meno zero fa 9, 1 meno zero fa 1, uguale 1945. Millenovecentoquarantacinque anni!?!? Dove ho sbagliato? Riproviamo: 9 meno 4 fa 5, 9 meno 5 fa 4, 9 meno zero fa 9, 1 meno zero fa 1: 1945. Ma guarda mamma che spiritosa! E quel fesso dell’impiegato ci ha pure creduto.

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La mamma, qualunque età abbia, è una bella donna: tanto per capirsi, una certa somiglianza con Jennifer Aniston… avete presente? Una brutta copia naturalmente… una bruttissima copia… diciamola tutta, un’orribile copia di Jennifer Aniston. Ma somiglia quanto basta per essere una bella donna.
E veniamo ai mestieri: il papà è un astrofisico che fa la spola tra l’osservatorio di Brera e il Cern di Ginevra, la mamma fa il medico di famiglia, Mattia fa il bambino, Mika fa il cane, ma non da guardia, solo da compagnia. E infatti la volta che era solo in casa e i ladri erano entrati spaccando un vetro di una porta finestra, lui si era sentito in dovere di accoglierli festosamente, da cortese padrone di casa vicario, correndo come un pazzo su è giù per l’alloggio, alternando probabilmente le feste tra i simpatici ospiti. Con il risultato di graffiare con le unghie tutto il palchetto in noce del parquet. Non c’era stato bisogno di un’opinione di Tiger Jack per capire attraverso le tracce com’era andata. Per essere un boxer comunque, Mika ha una qualità straordinaria. Non sbava quasi per niente, molto meno sicuramente di nonno Gioacchino, che sinceramente alle volte esagera. Ma non lo fa apposta. Non Mika a non sbavare, nonno Gioacchino a sbavare.
Mattia sospettava che Mika capisse davvero tutto quello che si diceva in famiglia. Non al punto da dover evitare in sua presenza di dover parlare di argomenti delicati che non dovevano uscire dai segreti familiare. Tipo il fatto che lui ogni tanto faceva ancora la pipì nel letto. Non Mika, Mattia. Ma capiva, capiva eccome. Uno ad esempio non poteva dirgli fetente di un cane, neppure usando un tono molto dolce, perché si offendeva ed era capace di mettere su il muso per un paio di minuti. Poi gli passava. E se tu provavi a dargli un ordine senza senso, come Mika siediti in piedi o Mika mangia la mamma, lui piegava di fianco la testa, sapete come fanno i cani, e ti guardava con quell’aria che voleva dire non fare il fesso, per me gli ordini sono una cosa seria, allora? cosa devo fare?
Bene, descritta sommariamente la famiglia, veniamo agli accadimenti che vogliamo raccontare e che ebbero inizio al mattino in cui il papà di Mattia, per scendere in strada a spegnere l’antifurto dell’auto (che ogni tanto suonava a vanvera) lasciò aperta la porta di un saloncino che era stato allestito, al secondo piano fuori terra, come studio/libreria e che da un mese a quella parte chiudeva sempre con cura. Il capobranco aveva chiarito a Mattia che quella stanza era assolutamente off-limits e che dunque per nessuna ragione al mondo avrebbe dovuto entrarvi.

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Un attimo dopo che il babbo aveva imboccato la scala, Mattia aveva aperto la porta della sua stanza, accanto allo studio/libreria, per portare Mika in strada a fare i suoi bisogni e lui non ci aveva pensato due volte, anziché infilare la scala, a infilarsi senza un attimo di esitazione nella stanza proibita. Sperando di scoprirvi chissà quali delizie da annusare, leccare e, al limite, trangugiare.
– Mikaaa noooooooooo!
Ma la violazione di territorio oramai era compiuta e allora – pensò la bestia – tanto vale dare un’occhiata in giro. Che poi era esattamente quello che voleva fare, e a buon diritto, non fermandosi al no, perché è noto che non bisogna mai, rifletteva galoppando, tentare di fermare un cane associando il suo nome a un comando negativo.
Il nome, lo sa anche il più dilettante degli addestratori e Mika condivideva l’opinione, va utilizzato soltanto con finalità positive: la pappa, il gioco, le coccole e così via.
Mal che vada, pensava Mika che continuava nella sua eccitante e inarrestabile scorreria, spiegherò che è andata come è andata: che il padroncino mi voleva fermare con un ordine inappropriato.
Visto il tempo che abbiamo perso a spiegare di che tipo fossero le punizioni stabilite dai genitori, anche per le disubbidienze più insignificanti, figurarsi per la violazione di un divieto assoluto, potete perfettamente capire che Mattia correva dietro Mika con il gelo nel cuore. Forse il papà avrebbe considerato un’attenuante il fatto che lui in fondo fosse entrato nello studio soltanto per inseguire Mika. E che era il giorno del suo compleanno. Ma questo non gli avrebbe evitato comunque una sanzione.
Lo studio era arredato da una grande libreria, un’estensione della quale divedeva l’ambiente in due parti e che ospitava migliaia di volumi: saggi, fascicoli, quaderni di appunti e anche quattro ripiani dedicati a raccolte di Tex Willer, Capitan Miki e, nientemeno, di Michel Vaillant: La grande sfidaIl pilota senza voltoIl circuito del terroreOperazione JaguarUn 13 in garaI nemici di Warson e via discorrendo.

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La parte nascosta alla vista di chi fosse entrato, o avesse sbirciato dall’esterno, aveva al centro una sorta di sarcofago trasparente che poteva far pensare a un apparecchio ospedaliero per la Tac o a un lettino per abbronzature total-body, ma molto più piccolo, composto da un piano orizzontale rettangolare, un’unità di scansione e da un pannello di comando con una poltrona girevole con al fianco sinistro una postazione a semicerchio ricca di misteriosi schermi, spie luminose e accessori. Le tapparelle erano abbassate e la stanza dunque illuminata, si fa per dire, dalla luce molto tenue di una sola lampada. Tutta l’apparecchiatura era accesa e un leggero ronzio denunciava un’attività in corso. Quel che c’era invece di assolutamente sorprendente era l’ospite del piano orizzontale: gli intrusi non potevano sospettarlo, ma si trattava di una creatura del Dominio Eukaryota, Regno Plantae, Sottoregno Tracheobionta, Superdivisione Spermatophyta, Divisione Angiospermae, Classe Magnoliopsida, Sottoclasse Asteridae, Ordine Asterales, Famiglia Asteraceae, Sottofamiglia Cichorioideae, Tribù Cardueae, Sottotribù Echinopsidinae, Specie Cynara cardunculus scolymus, insomma un carciofo inerme, cioè senza spine.
Essendo il papà di Mattia, come già detto, astrofisico, risultava quanto meno bizzarro che la sua attenzione di studioso si concentrasse su un vegetale, con o senza spine. I suoi interessi in biologia infatti erano confinati alla lettura di qualche saggio e nessuno di questi riguardava in modo specifico i vegetali. Un giorno a Mattia aveva spiegato: Vedi, io passo il tempo con le cose piccolissime e con quelle grandissime. I miei giocattoli preferiti sono i neutrini e un loro parente ciccione che si chiama Universo.
Ora, notò Mattia, quella creatura sotto osservazione forse era piccola, ma non piccolissima e tanto meno grandissima. Poi capì – è un bambino che capisce molte cose e pure in fretta – che il divieto non rispettato lo avrebbe esposto a seri guai. E allora decise che occorreva uscire al più presto, senza farsi incantare da quello stupido carciofo. Quello (il babbo non il carciofo), pensò, è capace di togliermi la Coca-Cola per un mese. Agguantò Mika per la collottola costringendolo a un immediato dietrofront, ma poi fu il terrore: sulla soglia della stanza stava il padre, immobile, fissando entrambi.

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Mika cominciò a uggiolare, non certo perché la presa del padroncino al collo potesse risultare dolorosa, ma contagiato dal terrore. E allora Mattia, senz’altra via di scampo, intraprese l’unica difesa possibile: mollò Mika, si portò le mani alle orecchie, per tapparsele, e se ne avesse avute altre due (non di orecchie, di mani) si sarebbe tappato anche gli occhi. Poi abbassò la testa pronto a incassare la paternale. Ma quelle che uscirono dalla bocca del padre furono, soltanto e inaspettatamente, parole di comprensione:
– Non importa Mattia, non ti sgrido. Anzi guarda, sono quasi contento, perché volevo giusto parlartene.
Mattia, mentre Mika tirava un grosso sospiro di sollievo, non voleva credere alle proprie orecchie tappate:
– Volevi parlarmi del carciofo?
– Sì del carciofo e di tutto il resto, a te e alla mamma; vai a prendere il guinzaglio, portiamo giù Mika insieme che ti spiego.
Giù in strada seguì qualche istante di silenzio, poi il padre parlò, un attimo prima che Mattia morisse di curiosità:
– Detto in estrema sintesi, sto cercando di spedire un’immagine di quel carciofo indietro nel tempo.
Il padrone deve essersi bevuto il cervello, pensò Mika, ma facendo finta di niente.
Parlava sottovoce, non Mika, i cani non parlano né sottovoce né a voce alta, intendevo il padre. Guardandosi attorno incessantemente come in uno scambio di opinioni tra banditi sul come progettare al meglio un progetto criminale.
– Uhauuu pa’, hai inventato la macchina del tempo?
– Mattia non urlare. Credo… non una macchina del tempo… una specie, che può inviare solo immagini.
– E lo hai detto a qualcuno?
– Finché non avrà funzionato è un segreto che deve rimanere in famiglia.
Mika provò una vampata di orgoglio, ma senza arrossire, per essere stato appena e con tutta evidenza incluso ufficialmente tra i familiari stretti.

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– Mi prenderebbero per matto. Ma a te posso dirlo e come vedi te lo sto dicendo. Vuoi sapere come dovrebbe funzionare?
Usa il condizionale, pensò Mika, non è del tutto matto.
– Pa’ non so se capirei.
– Cercherò di spiegartelo in modo semplice. Fino a qualche tempo fa se uno scienziato avesse anche soltanto parlato della possibilità di viaggiare o di far viaggiare qualcosa nel tempo senza catalogarla come un’immane sciocchezza, avrebbe compromesso la propria carriera. Ma ore le cose stanno cambiando. Si comincia a parlare di porte temporali in prossimità dei buchi neri. E io ho sviluppato un mio sogno. Si tratta di questo: la tecnologia di un laser permette di irradiare impulsi brevissimi – un milionesimo di miliardesimo di secondo – che hanno energie enormi. Grazie all’incrocio di più fasci laser si può irradiare un’immagine a tre dimensioni, che si chiama ologramma. Un’immagine che puoi inviare su in cielo, nello spazio, verso le stelle, fin dove si vuole – è solo questione di tempo – fino a raggiungere, se ben indirizzato, un buco nero. Questa fascia di fotoni – che sono piccolissime particelle di luce – normalmente dovrebbe essere attirata verso l’orbita del buco nero – forse ti ricordi, ne avevamo già parlato – che si chiama orizzonte degli eventi, un limite di non ritorno oltre il quale verrebbe risucchiato finendo a far parte di una singolarità. Qualcosa di assolutamente misterioso dove non esistono più leggi conosciute della fisica. Ma si può evitare che questo accada… sai come si fa con le pietre piatte che tirandole dalla spiaggia si fanno rimbalzare sul pelo dell’acqua… così l’ologramma può essere indirizzato in modo che ruoti attorno al buco nero e che sia rilanciato indietro attraverso un cunicolo spazio-temporale, una sorta di scorciatoia, nella stessa direzione da cui è arrivato.
– Un oliogramma, papà…?
– Ologramma, senza la i. Per ottenerlo bisogna dirigere con il laser sull’oggetto che ci interessa un fascio di luce di una sola lunghezza d’onda. A questo punto un prisma diverge il fascio…
– Papà, lascia perdere. L’immagine torna indietro e noi la vediamo?

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– L’immagine entra in una distorsione temporale e balza indietro nel tempo…
– Caspita papà, ma sei sicuro che funzionerà?
– No, per nulla. È soltanto teoria. Le simulazioni funzionano. Ma ci sono mille motivi perché nella pratica le cose vadano poi quasi sempre in modo diverso.
Già, la legge di non so chi, pensò Mika: Se qualcosa può andar male, andrà male.
– Ma allora…
– Comunque le idee vanno sempre sottoposte alla prova dei fatti. Non c’è altro modo di verificare se sono destinate a rimanere idee o se possono avere un destino migliore. È quello che sto tentando di fare col carciofo. Che tra l’altro si chiama Jurij.
– Chi papà? il carciofo?
– Sì, lo sai che sono un po’ matto, ogni tanto mi diverto a parlargli e l’ho chiamato Jurij in onore di Jurij Gagarin, il primo uomo che ha volato nello spazio.
– Ah, capito! Papà perché proprio un carciofo?
– Perché quando ho pensato per la prima volta che forse valeva la pena di tentare stavo mangiando la parmigiana di carciofi della mamma.
Durante questo scambio di vedute, Mika era rimasto tranquillo in disparte fingendo indifferenza. Trotterellava annusando qua e là, ma non perdeva una parola di quanto il capobranco e il suo cucciolo si andavano dicendo. E alle ultime parole del padrone non poté fare a meno di pensare: Con tutto il rispetto, questo si è davvero bevuto il cervello; avrà idea di quanto dista da noi un buco nero?
– Il buco nero più vicino alla Terra è a mille anni luce, nella costellazione Telescopio.
Oh caspita, pensò Mika, devo aver pensato abbaiando senza rendermene conto.
– Ma allora l’oliogramma…
– Ologramma, senza la i.
– L’ologramma ci metterà mille anni ad arrivare al buco nero. Non potremo mai sapere se l’esperimento riesce.

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E Mika, questa volta abbaiando, non potè fare a meno di precisare:
– Mille per l’andata più mille per il ritorno dovrebbe fare più o meno duemila anni.
Ottenendo la conferma del babbo (di Mattia, non di Mika):
– Duemila anni tra andata e ritorno, come ha detto Mika.
– Come ha detto chi?
– Scherzavo Mattia.
– Ma allora come farai a controllare che cosa succede, tra duemila anni saremo tutti morti.
– Parla per te, non ho nessuna intenzione di morire né ora né mai – intervenne Mika abbaiando furiosamente. Ma né il capobranco né il cucciolo gli diedero retta.
– E invece saremo proprio noi a osservarlo. La luce riprendendo la strada di casa proietterà l’immagine di Jurij indietro nel tempo. E dunque la distanza non ha nessuna rilevanza: duemila o un milione di anni luce, verrà annullata. È l’uovo di Colombo.
– Papà, l’uovo di che?
– Una leggenda racconta che Cristoforo Colombo avesse sfidato un amico a far stare un uovo in piedi su un tavolo senza l’aiuto di altri oggetti. L’amico dopo qualche tentativo maldestro si arrese. Allora Colombo prese l’uovo e lo ruppe su una delle sommità facendolo così rimanere fermo in verticale. Da allora per uovo di Colombo si intende una soluzione facile a un problema solo apparentemente difficile.
– Papà non ho capito bene.
– Il trucco di Colombo?
– No, quello sì. Non ho capito bene come fai a regolare il ritorno con il giusto tempo.
– Non siamo noi che dobbiamo regolarlo. È un fenomeno… dovrebbe essere un fenomeno che in qualche modo avviene spontaneamente. Per il ritorno ci dovrebbe impiegare esattamente lo stesso tempo dell’andata. Ma la cosa più difficile non è questa.
Sentiamo il difficile, pensò Mika.

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– La cosa difficile sarà indirizzare l’ologramma al ritorno nel posto giusto per poter essere rilevato. E questo è il compito che spetta al computer.
– Lo farai con il tuo computer?
– Lo sto già facendo, da un mese. Il mio computer lavora in parallelo con i computer del Cern di Ginevra. È lì che ho impostato il programma. Qui diciamo che riceverò l’eventuale risposta. Sempre che il computer riesca a indirizzarla con una buona approssimazione.
– Pa’ cosa intendi per buona approssimazione?
– Al massimo, diciamo, un paio di chilometri.
– Ma signor capobranco – abbaiò Mika spazientito – cerchi di ragionare: questa non è una buona approssimazione. È una schifezza di approssimazione.

Trovarsi coinvolto in un esperimento da Nobel era una cosa molto intrigante e Mattia nei giorni successivi prese a considerare quali sarebbero state le conseguenze positive sulla sua reputazione a scuola. Probabilmente sarebbe diventato un idolo. In classe lo avrebbero guardato tutti come si guarda una celebrità, maestra compresa: Venga alla lavagna il piccolo Nobel. Tutti, da quando la notizia fosse diventata di pubblica conoscenza lo avrebbero chiamato così. A questa domanda voglio che risponda il Nobel. Piccolo Nobel portami un po’ qua il quadernoAllora, Nobel, la vuoi finire questa insalata? Little Nobel keep quiet (questa era la maestra di inglese). Certo, considerò Mattia, dovrò mettere nel conto anche qualche sfottò, è solo una questione, come dice la mamma, di costi e benefici. E i benefici saranno enormemente superiori ai costi.

Epilogo

Nei giorni successivi l’entusiasmo in Mattia andò via via scemando. Abbandonando, quasi, le aspettative di gloria, riprese a pensare anche alle cose di tutti i giorni. Ma al sabato mattina della settimana successiva, Mattia entrò di corsa nello studio, seguito da Mika, dove il padre da pochi istanti alla console di comando aveva annotato una delle periodiche correzioni di “rotta” del raggio laser operate dal computer.

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– Papà, papà… il carciofo è apparso giù in garage… stavo giocando, prima non c’era e poi dopo era lì… presto! Corri!
– Mi prendi in giro?
– No, papà, te lo giuro… in garage… vieni a vedere!
Il padre non se lo fece ripetere, digitò un ordine di fermo angolazione sulla tastiera, precipitandosi subito dopo giù dalle scale, dietro al figlio e al cane, che tra i tre era il più eccitato. Anche perché tra i tre sin dall’inizio dell’impresa era stato il più scettico.
Il terzetto fu al piano di sotto in un battibaleno. Jurij, sì insomma il Cynara cardunculus scolymus, era lì, apparentemente appoggiato sul pavimento, seminascosto dal parafango posteriore dell’auto della mamma.

– Non mi aspettavo, disse il papà, di vederlo appoggiato in terra. Avrebbe potuto apparire a mezz’aria o sporgente da un muro, o dal soffitto o dal pavimento. Ma è proprio la sua immagine. Guarda: è identica all’originale.
– Papà, posso toccarlo?
– Non puoi toccarlo, è solo un’immagine. Come il porcellino della scatola di magia. Ricordi? Tu lo vedi appoggiato su quello che sembra uno specchio convesso, cerchi di toccarlo, ma le dita non lo afferrano, perché il porcellino è sul fondo di uno specchio concavo. Un’illusione ottica.
– Papà, ti prego, fammi provare.
– Ok, però aspetta, prima lascia che lo fotografi. Ti confesso che non so davvero che cosa può accadere all’immagine. Se perdurerà nel tempo o se sparirà tra un attimo.
– Può essere pericoloso?
– Ma no. Nessun pericolo. Ma mi trovo di fronte a qualcosa di imprevedibile e voglio documentare l’immagine. Ecco… aspetta… ne faccio ancora un paio da un’altra prospettiva. È pazzesco! L’immagine è perfetta in tutte le sue dimensioni. L’olografia classica veniva disturbata dall’interferenza delle sorgenti luminose ed era sensibile alle instabilità meccaniche. Ma ora con l’uso di fotoni entangled gli ologrammi risultano perfetti in tutti i dettagli.

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– Pa’ non c’ho capito niente.
– No, scusa, parlavo a me stesso. Ecco fatto. Ora puoi provare ad accostare un dito. Io faccio partire un video.
Mika nel frattempo osservava sbalordito. Era tentato di ringhiare a quell’ospite appoggiato in terra, perché l’atteggiamento di Mattia e del padre non era del tutto rassicurante. Ma al tempo stesso coglieva l’importanza del momento e preferiva guardava la fine di quell’avventura dall’esterno, come semplice testimone. Mattia si mise in ginocchio:
– Va bene papà, adesso ci provo.
La sua mano destra, l’indice proteso in avanti, si avvicinò lentamente: 20 centimetri, 15, 10, 5, un centimetro, un attimo di esitazione e poi… contatto.
– Papà, l’ho toccato… c’è papà… non è solo un’immagine… guarda…
E il carciofo effettivamente, su una delicatissima pressione del dito, si spostò di qualche millimetro. Un’ulteriore leggera pressione e l’immagine, o meglio, la replica del carciofo si spostò di un paio di centimetri. Il papà sbiancò in volto, le gambe gli mancarono e dovette appoggiarsi alla parete per non cadere.
– Mio Dio, Mattia, capisci? È successa un qualcosa di inspiegabile. Ma è successa. Credo di aver inventato la prima macchina del tempo. È accaduto molto di più, infinitamente di più di quello che avevo sperato.
– Papà, ti daranno il premio a Stoccolma?
– Il Nobel? No Mattia… non credo… ma chissà.
In quel momento sulla porta si affacciò la mamma:
– Cosa fate voi due qui? Ah eccolo, mi pareva bene di averne comprati sei, deve essermi caduto mentre scaricavo la spesa.
E fatti due passi raccolse il sosia di Jurij portandolo via. Dall’alto di una mensola il Melopsittacus undulatus osservava sornione la scena.

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