Paisley che voleva andare in città

(12 minuti di lettura)

di Emi Tempesta

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A Santo Clemente, dove i pomeriggi estivi non erano molto differenti da quelli di tutta l’altra provincia californiana, non è insolito annoiarsi. Paisley, il personaggio centrale di questa narrazione, non era troppo diversa dalle coetanee, tutte in attesa di un’occasione che le portasse a vivere a San Francisco. Ma in quanto a quoziente di intelligenza e bellezza le surclassava tutte. Lei in realtà si chiamava Barbra Baker: era diventata per tutti Paisley da quando aveva vinto un concorso studentesco di disegno a tempera ispirandosi a una fotografia, trovata su una rivista, di un antico tappeto Kashmir. Uno dei motivi del tappeto raffigurava un disegno vegetale a forma di goccia allungata, detto per l’appunto Paisley.
Il fascino della diciannovenne era fuori discussione, né esisteva uomo nella cittadina che non avesse tramato o sognato di possederla. Lei distribuiva con generosità sorrisi e ammiccamenti, ma niente di più. Molti si vantavano di averla conquistata e Paisley non aveva una gran reputazione. Circostanza che non le aveva certo accattivato la simpatia delle concittadine le quali, per chiudere il cerchio, contribuivano fattivamente a riferire, inventare, infiorare e ingigantire ogni tipo di pettegolezzi. Ma alla prova dei fatti sarebbero stati in pochi a poter dire di aver scambiato con lei qualcosa di più di due chiacchiere. E tuttavia le leggende girano più agevolmente delle verità, partendo anche dall’edificio della locale High School, le cui insegnanti, in alcune occasioni, l’avevano accusata, negli anni del corso, di turbare con la sua civetteria la serenità dell’istituto.
Paisley lottava perennemente contro la monotonia a cui è più o meno condannata la provincia, in contrasto con il dinamismo degli adolescenti. Aveva numerosi hobby: la tempera per l’appunto, la musica, soprattutto la symphonic rock, i romanzi fantasy, non disdegnando lo spionaggio, i gialli e i drammi sentimentali. Il tempo libero da queste attività più inerenti all’intelletto, lo dedicava al jogging e al piacere di scaldarsi al sole accanto all’oceano, pochi chilometri dal centro urbano, sulla scogliera meno frequentata della contea. Nel suo posto “segreto” che aveva visto il suo primo bacio con un fidanzatino.

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Una mattina di metà maggio era distesa su uno scoglio: chi l’avesse spiata segretamente l’avrebbe così descritta: i capelli, sciolti sulle spalle, le incorniciavano il viso dagli zigomi pieni e ben marcati, sopracciglia curve, labbra carnose, un naso sottile, un collo perfetto. Il suo corpo e il viso sprigionavano al contempo sensualità e dolcezza, per un insieme che sembrava appena uscito dal dipinto di una delle muse dormienti di Serge Marshennikov.
Ma Paisley su quegli scogli difficilmente dormiva: macinava invece pensieri. Pensieri nient’affatto banali. Perché se in paese si poteva, a torto o ragione, discutere sulla sua reputazione, nessuno si sarebbe sognato di negare che fosse in possesso di un altissimo quoziente di intelligenza. Ereditato sicuramente da un nonno che era conosciuto in paese come mathematician Abram per la particolare capacità di calcolare all’istante il prodotto di fattori fino a tre cifre e, si diceva, anche di calcolare divisioni di numeri interi con risultati fino a sei decimali. Per la verità questa ultima capacità non era mai stata seriamente verificata da nessuno, ma come già detto le leggende… Nessun compagno o compagna di scuola – ancor meno quell’unica amica che frequentava sporadicamente – poteva dire di averla vista studiare neppure una volta. Eppure nelle valutazioni aveva tutte ed esclusivamente A. Mi basta e avanza – spiegava – seguire le lezioni. Sul suo alto quoziente di intelligenza facevano conto le sue concittadine gelose per sperare che presto facesse vela con una borsa di studio verso una prestigiosa università, il più lontano possibile.
Tuttavia Paisley non era affatto sicura di voler continuare a studiare e si era presa un anno di riflessione, dopo il diploma, per decidere effettivamente che fare della sua vita. In quelle ore di isolamento dunque rifletteva e azzardava ipotesi. Sul suo scoglio/eremo non aveva mai temuto neppure per un attimo di poter essere vittima di un predatore sessuale. Lo sceriffo sapeva il fatto suo e nei dintorni il reato forse più grave negli ultimi anni era stato una rapina a un supermercato da parte di un paio di balordi di passaggio, catturati venti minuti dopo sulla Route 1.

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Le riflessioni di Paisley la stavano portando a decidere che forse quella della borsa di studio era un’ipotesi percorribile, ma solo per non sprecare tempo in attesa di un’occasione. E in fondo i campus sono luoghi ideali dove intrecciare nuove conoscenze. Un uomo? Una famiglia? Figli? Perché no, ma non necessariamente. Forse, nel tempo. Lei non poneva limiti alle svolte che potesse proporle la vita. Una sola cosa era certa: che fosse indispensabile lasciarsi alla spalle la provincia per approdare a una grande città. E a quel punto non sarebbe stata lei a cercare le occasioni, ma sarebbero state le occasioni a bussare alla sua porta. Alla peggio avrebbe potuto servire per qualche mese ai tavoli di uno Starbucks o di un fast-food, tanto per cominciare a guardarsi attorno.

Ore 3 p.m.

È questo che precisamente stava pensando quando la lunga ombra si stagliò accanto a lei sullo scoglio levigato. Prona, distesa su un materassino, una guancia posata su una borsa avvolta da un asciugamano che le faceva da cuscino, le spalle al sole di quella carezzevole primavera, non poteva vedere di chi si trattasse. Era sveglia ma non aveva sentito il benché minimo rumore che annunciasse l’approssimarsi di qualcuno, fatto salvo lo sciabordio delle piccole onde e lo stridio di un paio di gabbiani che si rincorrevano, forse gioiosi, forse bellicosi o innamorati. Si era sempre considerata una ragazza coraggiosa, ma quello che la attanagliava in quei brevi istanti era paura allo stato puro che le impediva di muoversi o anche soltanto di urlare. Per pochi istanti valutò che non poteva certo trattarsi di una persona amica, che non si sarebbe avvicinata furtivamente. Tutt’altro, per non spaventarla, uomo o donna che fosse, si sarebbe invece annunciata appena a distanza utile di voce.
La strada era in alto, in cima alla scogliera: in caso di bisogno urlare sarebbe stato inutile, il tentativo di alzarsi e di fuggire da quello scoglio non visibile dall’alto, si sarebbe trasformato, così, a piedi nudi, in una catastrofe. E non avrebbe potuto certo attardarsi a indossare le scarpe da ginnastica. Decise dunque di rimanere ferma e aspettare che lo sconosciuto facesse la prima mossa.

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L’ombra era immobile e denunciava, se la prospettiva creata dall’inclinazione dei raggi solari non la ingannava, una corporatura fuori dal consueto: una persona alta, anzi altissima, magrissima e dagli arti sproporzionatamente lunghi. L’attesa durò una manciata di secondi, poi cambiò repentinamente idea e decise che doveva fare qualcosa per rendersi conto del pericolo che la sovrastava. Sollevò dunque leggermente il busto facendo leva sugli avambracci e girò lentamente la testa sollevando lo sguardo. L’urlo le si formò nel cuore e poi in gola e uscì lentamente, dapprima come il mugolio di un gattino, poi con un crescendo disperato. Interminabile, finché le rimase un alito di fiato nei polmoni. La creatura che aveva accanto somigliava soltanto vagamente a una persona, meglio alla caricatura di una persona.
Non era sullo scoglio, parte degli arti inferiori, erano infatti immersi nell’acqua. Tutto il corpo, gambe, braccia, busto, era avvolto da una sorta di aurea opaca che ne seguiva i contorni come un rivestimento protettivo. Anche la testa, ma non il volto – e questo era il particolare più sconvolgente –, unica porzione del corpo libero dall’involucro, dove appariva qualcosa di preciso. Ebbene la faccia di quell’orribile apparizione aveva le fattezze del violinista di un gruppo symphonic rock di cui Paisley aveva un poster gigante nella sua stanza. Ma il “ritratto”, quasi in coincidenza con l’acutizzarsi dell’urlo, svanì e se ne formò un altro con i lineamenti del giovane cassiere di un market che con Paisley era sempre molto carino e gentile e poi un altro volto, e un altro ancora. Tutti di persone che lei considerava o.k.. E a ogni successiva sembianza Paisley riprendeva e acuiva le sue urla. Quindi voltò la testa per sfuggire a quelle mutazioni insopportabili. Sperando forse che l’apparizione scomparisse. Tutto questo non aveva un senso logico e neppure illogico. Non aveva semplicemente senso. Avrebbe potuto solo essere un incubo da cui svegliarsi al più presto. Ma non era un incubo, era pura realtà. E da una realtà non c’è modo di svegliarsi.

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Paisley, quando decise che doveva assolutamente smettere di urlare, perché insistere non sarebbe stato produttivo di nulla di buono, smise e con un riflesso automatico si allungò addosso l’asciugamano, come una corazza che potesse difenderla e poi fece una seconda cosa altrettanto irrazionale: tremando come una foglia, gli occhi colmi di lacrime che le annebbiavano la vista, si alzò in piedi ansimando e barcollando. Ma si trattava di movimenti dettati dall’istinto, non dalla ragione. La creatura a quel punto abbandonò l’immobilità e si tirò sullo scoglio con semplicità, come fosse un piccolo gradino. E le fu accanto. Gli arti superiori l’afferrarono saldamente tirandola a sé, mentre i suoni che emise, probabilmente ordini imperiosi, finirono il lavoro del primo shock: Paisley, inebetita, perse i sensi tra le “braccia” dell’essere raccapricciante.
Si riebbe un paio di minuti dopo durante la scalata del sentiero che portava in cima alla scogliera e iniziò a singhiozzare. L’alieno si fermò, la posò in terra, le impedì di cadere sulle ginocchia che non reggevano il peso dell’angoscia e uno degli arti andò a posarsi delicatamente sui capelli di Paisley, con un movimento che aveva tutta l’apparenza di una carezza. Il suono che questa volta emise il suo rapitore aveva perso il tono imperioso dei precedenti. Suonava come un borbottio. In quel momento Paisley pensò: Abbiamo bisogno di una dose del tuo sangue, ma non piangere, non soffrirai. Il pensiero era suo, ma non poteva esserlo. Si era formato nella sua mente. Paisley rimase un attimo interdetta, poi chiese:
– Mi stai parlando?
Ma la creatura non rispose, non sembrava capire. Poi Paisley pensò: Anche tu devi pensare. Paisley comprese che quell’essere poteva farsi capire soltanto mentalmente e che le stava chiedendo di fare altrettanto. Paisley comprese un’altra cosa, per quanto immersa nel peggiore degli incubi era in grado di capire: comprese qual era l’unica carta che forse avrebbe potuto salvarla: l’unico espediente in possesso di una donna indifesa, seminuda e disperata.

6

All’interno dell’astronave il resto dell’equipaggio è in attesa del ritorno dell’esploratore dalla missione. Lo spiazzo scelto per l’atterraggio è al riparo in una zona boschiva. L’esploratore è stato incaricato di catturare un qualunque terrestre adulto e portarlo sulla nave. Unirion, il nome con cui è conosciuta la Terra, è sotto controllo da un’unità di tempo che per i terrestri equivale a circa cinquemila anni. Le navette sono andate e tornate dal confine opposto della Galassia centinaia di volte e mai, neppure una volta, si è verificato il benché minimo incidente. Quello che per i visitatori è certo sin dalle prime esplorazioni è che il pianeta è perfettamente compatibile, dal punto di vista chimico ambientale, con le loro esigenze. E dunque Unirion, con un altro centinaio di pianeti, viene tenuto sotto osservazione come possibile rifugio per parte della popolazione nel caso, considerato probabile, dell’approssimarsi di un impatto catastrofico con uno degli innumerevoli oggetti orbitanti nella Galassia.
Nessun problema finché su Unirion sono stati inventati il radar e il sonar. Strumenti primitivi e tuttavia rispondenti all’uso. La questione è stata facilmente risolta dalle macchine inventrici con uno scudo “assorbente” delle onde radio e delle vibrazioni molecolari che garantisce l’invisibilità elettromagnetica e acustica delle navicelle in arrivo su Unirion o in viaggio nelle acque oceaniche. Questo non ha impedito in alcune circostanze avvistamenti visivi da parte dei terrestri, ma che non hanno mai portato a conseguenze concrete. Intoppi risolti nei casi più gravi con il trasporto a bordo della navicella del soggetto o dei soggetti umani coinvolti per un condizionamento mentale. Che richiede non più di un paio di minuti terrestri di esposizione dentro una camera di alterazione sensoriale con la cancellazione per strati dell’esperienza vissuta, fino a uno spazio tempo coincidente col momento del rilascio. Momento in cui il soggetto esposto riprende la cognizione del presente con un vago senso di smarrimento che viene generalmente attribuito dall’umano in questione a un malessere passeggero.

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Gli equipaggi in giro per la Galassia, nelle loro esplorazioni, hanno il compito di valutare la stabilità delle condizioni chimico/ambientali. E anche biologiche su quei pochi pianeti dove c’è qualche forma di vita, come Unirion. E questo richiede, periodicamente, la cattura di svariati organismi pluricellulari, tra cui gli umani, o di entità biologiche elementari, che vengono sottoposti a indagini per appurare le eventuali problematiche in atto. Poi i soggetti umani indagati vengono rilasciati con le stesse modalità degli avvistatori indiscreti. In tutti i casi con un vincolo assoluto per gli indagatori: non procurare danni a nessun vivente. Il che comporta, ad esempio, su Unirion il divieto di estirpare un fiore dal terreno, o l’indicazione, quando possibile, di non calpestare l’erba viva. Se questa regola fosse trasgredita (non era mai accaduto) il responsabile al rientro sul pianeta di appartenenza sarebbe privato del futuro. Una pena severa considerato che il futuro di ciascuno di loro può avere un’estensione, salvo incidenti, eterna. Del resto a tutti gli equipaggi di esploratori la sanzione appare come perfettamente congrua in rapporto alla gravità del danno.

Ore 4.32 p.m.

– Esploratore chiama comando
– Avanti esploratore
– Missione fallita.
– In zona nessun vivente di razza umana?
– Ho trovato un vivente femmina adulta. Ho eseguito la procedura. Ha reagito. Le ho sottratto il futuro.
– Sottratto il futuro a un vivente femmina adulta? Confermi?
– Confermo.
– Ragioni valide?

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– Nessuna ragione valida. Le ho sottratto comunque il futuro.
– Hai una qualunque non ragione?
– Esperienza intollerabile: ha cercato un accoppiamento. La femmina ora è senza futuro.
– Avevi rispettato il protocollo?
– Per l’avvicinamento ho pescato nel magazzino dei ricordi dell’umano i volti amichevoli.
– Esploratore torna a bordo. Missione interrotta con rientro immediato alla base. Giudicheranno i saggi.
– L’esploratore non torna alla base. L’esploratore si consegna al giudizio dei terrestri.
– È un’extra prassi. Negata. Negata. Esploratore rientro immediato.
– Rientro non confermabile. Chiudo contatto.
– No, imposs…

Ore 4.58 p.m.

Un elicottero Bell 212 dell’esercito degli Stati Uniti passa velocemente a meno di duecento metri sulla verticale della navetta spaziale “parcheggiata” nello spiazzo erboso.

Ore 5.40 p.m.

Elicotteri Apache sbarcano lo squadrone A d’assalto dello Special Forces Operational Detachment che si schierano in silenzio e invisibili, a ferro di cavallo (offri al gatto una vita di fuga), attorno allo spiazzo dove la navetta aliena è ancora ferma in attesa di un secondo contatto dell’esploratore. E soprattutto degli ordini dalla nave ammiraglia. Un minuto dopo dall’interno del bosco il frastuono assordante di un motore da 1500 cavalli preannuncia l’arrivo di un carro M1 Abrams, scaricato da un elicottero Super Stallion, con a bordo un generale a quattro stelle dell’esercito.

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L’M1 Abrams si apre un passaggio abbattendo alberi e spianando il resto della vegetazione sul suo percorso. Avvicinandosi a meno di 50 metri dalla navetta. Tramite altoparlante una voce ordina in inglese, russo, cinese, spagnolo e arabo all’equipaggio del velivolo sconosciuto di scendere disarmato entro cinque minuti, con la garanzia che non verrà fatto loro nulla di male, che l’equipaggio della nave non identificata verrà considerato ospite a tutti gli effetti e che verrà rilasciato appena chiarito la nazionalità e il motivo della presenza sul territorio degli Stati Uniti. L’alto ufficiale americano immediatamente dopo pensa: Uno non possiamo consegnarci, due non siamo ostili, tre non vi toglieremo il futuro. Si sta chiedendo perché mai nella sua mente si sia formato un pensiero così incoerente, quando un secondo pensiero si sovrappone alla domanda rivolta a se stesso: Non è un suo pensiero. È la nostra risposta. Né utile aggiungere altre informazioni.

Ore 5.58 p.m.

La navetta, senza alcun segnale o rumore premonitore inizia a levitare. Il generale trasmette l’ordine di non tentare in alcun modo di fermare il decollo. E pochi istanti dopo il velivolo alieno con un’accelerazione improvvisa scompare dalla vista, altissimo oltre le nuvole.
– Mio Dio! Signore, guardi lei stesso.
Il generale incolla gli occhi al periscopio del carro corazzato ed esclama:
– Non è possibile!
Da una zona più fitta di vegetazione, al bordo della radura, è emersa una coppia del tutto improbabile che cammina verso l’M1 Abrams. Una donna giovane in due pezzi, un asciugamano intorno alla vita, le braccia alzate. Accanto a una gigantesca figura dai contorni indefiniti. Il generale zooma il visore su un primo piano dei due nuovi arrivati: la donna è splendida e giovanissima, quello che appare con tutta evidenza il primo alieno che sta per entrare in contatto con la razza umana ha il volto, sfocato ma inconfondibile, e il ciuffo biondo del presidente degli Stati Uniti.
Paisley ora sa che non dovrà aspettare un’occasione che bussi alla sua porta. Ha già bussato, molto prima di quanto avrebbe mai potuto immaginare.

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